San Giovanni Paolo II. Dalla Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte (2001)

(capitolo IV)

TESTIMONI DELL'AMORE

42. « Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,35). Se abbiamo veramente contemplato il volto di Cristo, carissimi Fratelli e Sorelle, la nostra programmazione pastorale non potrà non ispirarsi al « comandamento nuovo » che egli ci ha dato: «Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).

È l'altro grande ambito in cui occorrerà esprimere un deciso impegno programmatico, a livello di Chiesa universale e di Chiese particolari: quello della comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l'essenza stessa del mistero della Chiesa. La comunione è il frutto e la manifestazione di quell'amore che, sgorgando dal cuore dell'eterno Padre, si riversa in noi attraverso lo Spirito che Gesù ci dona (cfr Rm 5,5), per fare di tutti noi « un cuore solo e un'anima sola » (At 4,32). È realizzando questa comunione di amore che la Chiesa si manifesta come « sacramento », ossia «segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano».

Le parole del Signore, a questo proposito, sono troppo precise per poterne ridurre la portata. Tante cose, anche nel nuovo secolo, saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa; ma se mancherà la carità (agape), tutto sarà inutile. È lo stesso apostolo Paolo a ricordarcelo nell'inno alla carità: se anche parlassimo le lingue degli uomini e degli angeli, e avessimo una fede « da trasportare le montagne », ma poi mancassimo della carità, tutto sarebbe « nulla » (cfr 1 Cor 13,2). La carità è davvero il « cuore » della Chiesa, come aveva ben intuito santa Teresa di Lisieux, che ho voluto proclamare Dottore della Chiesa proprio come esperta della scientia amoris: «Capii che la Chiesa aveva un Cuore e che questo Cuore era acceso d'Amore. Capii che solo l'Amore faceva agire le membra della Chiesa [...] Capii che l'Amore racchiudeva tutte le Vocazioni, che l'Amore era tutto».

Una spiritualità di comunione

43. Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo.

Che cosa significa questo in concreto? Anche qui il discorso potrebbe farsi immediatamente operativo, ma sarebbe sbagliato assecondare simile impulso. Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l'uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell'altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità. Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell'unità profonda del Corpo mistico, dunque, come « uno che mi appartiene », per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c'è nell'altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un « dono per me », oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper « fare spazio » al fratello, portando « i pesi gli uni degli altri » (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz'anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita.

44. Su questa base, il nuovo secolo dovrà vederci impegnati più che mai a valorizzare e sviluppare quegli ambiti e strumenti che, secondo le grandi direttive del Concilio Vaticano II, servono ad assicurare e garantire la comunione. Come non pensare, innanzitutto, a quegli specifici servizi alla comunione che sono il ministero petrino, e, in stretta relazione con esso, la collegialità episcopale? Si tratta di realtà che hanno il loro fondamento e la loro consistenza nel disegno stesso di Cristo sulla Chiesa, ma proprio per questo bisognose di una continua verifica che ne assicuri l'autentica ispirazione evangelica.

Molto si è fatto dal Concilio Vaticano II in poi anche per quanto riguarda la riforma della Curia romana, l'organizzazione dei Sinodi, il funzionamento delle Conferenze episcopali. Ma certamente molto resta da fare, per esprimere al meglio le potenzialità di questi strumenti della comunione, oggi particolarmente necessari di fronte all'esigenza di rispondere con prontezza ed efficacia ai problemi che la Chiesa deve affrontare nei cambiamenti così rapidi del nostro tempo.

45. Gli spazi della comunione vanno coltivati e dilatati giorno per giorno, ad ogni livello, nel tessuto della vita di ciascuna Chiesa. La comunione deve qui rifulgere nei rapporti tra Vescovi, presbiteri e diaconi, tra Pastori e intero Popolo di Dio, tra clero e religiosi, tra associazioni e movimenti ecclesiali. A tale scopo devono essere sempre meglio valorizzati gli organismi di partecipazione previsti dal Diritto canonico, come i Consigli presbiterali e pastorali. Essi, com'è noto, non si ispirano ai criteri della democrazia parlamentare, perché operano per via consultiva e non deliberativa; non per questo tuttavia perdono di significato e di rilevanza. La teologia e la spiritualità della comunione, infatti, ispirano un reciproco ed efficace ascolto tra Pastori e fedeli, tenendoli, da un lato, uniti a priori in tutto ciò che è essenziale, e spingendoli, dall'altro, a convergere normalmente anche nell'opinabile verso scelte ponderate e condivise.

Occorre a questo scopo far nostra l'antica sapienza che, senza portare alcun pregiudizio al ruolo autorevole dei Pastori, sapeva incoraggiarli al più ampio ascolto di tutto il Popolo di Dio. Significativo ciò che san Benedetto ricorda all'Abate del monastero, nell'invitarlo a consultare anche i più giovani: « Spesso ad uno più giovane il Signore ispira un parere migliore ». E san Paolino di Nola esorta: «Pendiamo dalla bocca di tutti i fedeli, perché in ogni fedele soffia lo Spirito di Dio».

Se dunque la saggezza giuridica, ponendo precise regole alla partecipazione, manifesta la struttura gerarchica della Chiesa e scongiura tentazioni di arbitrio e pretese ingiustificate, la spiritualità della comunione conferisce un'anima al dato istituzionale con un'indicazione di fiducia e di apertura che pienamente risponde alla dignità e responsabilità di ogni membro del Popolo di Dio.

La varietà delle vocazioni

46. Questa prospettiva di comunione è strettamente legata alla capacità della comunità cristiana di fare spazio a tutti i doni dello Spirito. L'unità della Chiesa non è uniformità, ma integrazione organica delle legittime diversità. È la realtà di molte membra congiunte in un corpo solo, l'unico Corpo di Cristo (cfr 1 Cor 12,12). È necessario perciò che la Chiesa del terzo millennio stimoli tutti i battezzati e cresimati a prendere coscienza della propria attiva responsabilità nella vita ecclesiale. Accanto al ministero ordinato, altri ministeri, istituiti o semplicemente riconosciuti, possono fiorire a vantaggio di tutta la comunità, sostenendola nei suoi molteplici bisogni: dalla catechesi all'animazione liturgica, dall'educazione dei giovani alle più varie espressioni della carità.

Certamente un impegno generoso va posto — soprattutto con la preghiera insistente al padrone della messe (cfr Mt 9,38) — per la promozione delle vocazioni al sacerdozio e di quelle di speciale consacrazione. È questo un problema di grande rilevanza per la vita della Chiesa in ogni parte del mondo. In certi Paesi di antica evangelizzazione, poi, esso si è fatto addirittura drammatico a motivo del mutato contesto sociale e dell'inaridimento religioso indotto dal consumismo e dal secolarismo. È necessario ed urgente impostare una vasta e capillare pastorale delle vocazioni, che raggiunga le parrocchie, i centri educativi, le famiglie, suscitando una più attenta riflessione sui valori essenziali della vita, che trovano la loro sintesi risolutiva nella risposta che ciascuno è invitato a dare alla chiamata di Dio, specialmente quando questa sollecita la donazione totale di sé e delle proprie energie alla causa del Regno.

In questo contesto prende tutto il suo rilievo anche ogni altra vocazione, radicata in definitiva nella ricchezza della vita nuova ricevuta nel sacramento del Battesimo. In particolare, sarà da scoprire sempre meglio la vocazione che è propria dei laici, chiamati come tali a « cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio » ed anche a svolgere « i compiti propri nella Chiesa e nel mondo [...] con la loro azione per l'evangelizzazione e la santificazione degli uomini ».

In questa stessa linea, grande importanza per la comunione riveste il dovere di promuovere le varie realtà aggregative, che sia nelle forme più tradizionali, sia in quelle più nuove dei movimenti ecclesiali, continuano a dare alla Chiesa una vivacità che è dono di Dio e costituisce un'autentica « primavera dello Spirito ». Occorre certo che associazioni e movimenti, tanto nella Chiesa universale quanto nelle Chiese particolari, operino nella piena sintonia ecclesiale e in obbedienza alle direttive autorevoli dei Pastori. Ma torna anche per tutti, esigente e perentorio, il monito dell'Apostolo: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,19-21).

47. Un'attenzione speciale, poi, deve essere assicurata alla pastorale della famiglia, tanto più necessaria in un momento storico come il presente, che sta registrando una crisi diffusa e radicale di questa fondamentale istituzione. Nella visione cristiana del matrimonio, la relazione tra un uomo e una donna — relazione reciproca e totale, unica e indissolubile — risponde al disegno originario di Dio, offuscato nella storia dalla « durezza del cuore », ma che Cristo è venuto a restaurare nel suo splendore originario, svelando ciò che Dio ha voluto fin « dal principio » (Mt 19,8). Nel matrimonio, elevato alla dignità di Sacramento, è espresso poi il « grande mistero » dell'amore sponsale di Cristo per la sua Chiesa (cfr Ef 5,32).

Su questo punto, la Chiesa non può cedere alle pressioni di una certa cultura, anche se diffusa e talvolta militante. Occorre piuttosto fare in modo che, attraverso un'educazione evangelica sempre più completa, le famiglie cristiane offrano un esempio convincente della possibilità di un matrimonio vissuto in modo pienamente conforme al disegno di Dio e alle vere esigenze della persona umana: di quella dei coniugi, e soprattutto di quella più fragile dei figli. Le famiglie stesse devono essere sempre più consapevoli dell'attenzione dovuta ai figli e farsi soggetti attivi di un'efficace presenza ecclesiale e sociale a tutela dei loro diritti.

L'impegno ecumenico

48. E che dire poi dell'urgenza di promuovere la comunione nel delicato ambito dell'impegno ecumenico? Purtroppo, le tristi eredità del passato ci seguono ancora oltre la soglia del nuovo millennio. La celebrazione giubilare ha registrato qualche segnale davvero profetico e commovente, ma ancora tanto cammino rimane da fare.

In realtà, facendoci fissare lo sguardo su Cristo, il Grande Giubileo ci ha fatto prendere più viva coscienza della Chiesa come mistero di unità. « Credo la Chiesa una »: ciò che esprimiamo nella professione di fede, ha il suo fondamento ultimo in Cristo, nel quale la Chiesa non è divisa (cfr 1 Cor 1,11-13). In quanto suo Corpo, nell'unità prodotta dal dono dello Spirito, essa è indivisibile. La realtà della divisione si genera sul terreno della storia, nei rapporti tra i figli della Chiesa, quale conseguenza dell'umana fragilità nell'accogliere il dono che continuamente fluisce dal Cristo-Capo nel Corpo mistico. La preghiera di Gesù nel Cenacolo — « come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola » (Gv 17,21) — è insieme rivelazione invocazione. Essa ci rivela l'unità di Cristo col Padre quale luogo sorgivo dell'unità della Chiesa e dono perenne che in lui questa, misteriosamente, riceverà fino alla fine dei tempi. Quest'unità, che non manca di realizzarsi concretamente nella Chiesa cattolica, nonostante i limiti propri dell'umano, opera pure in varia misura nei tanti elementi di santificazione e di verità che si trovano all'interno delle altre Chiese e Comunità ecclesiali; tali elementi, come doni propri della Chiesa di Cristo, le sospingono incessantemente verso l'unità piena.

La preghiera di Cristo ci ricorda che questo dono ha bisogno di essere accolto e sviluppato in maniera sempre più profonda. L'invocazione « ut unum sint » è, insieme, imperativo che ci obbliga, forza che ci sostiene, salutare rimprovero per le nostre pigrizie e ristrettezze di cuore. È sulla preghiera di Gesù, non sulle nostre capacità, che poggia la fiducia di poter raggiungere anche nella storia, la comunione piena e visibile di tutti i cristiani.

In questa prospettiva di rinnovato cammino post-giubilare, guardo con grande speranza alle Chiese dell'Oriente, auspicando che riprenda pienamente quello scambio di doni che ha arricchito la Chiesa del primo millennio. Il ricordo del tempo in cui la Chiesa respirava con «due polmoni» spinga i cristiani d'Oriente e d'Occidente a camminare insieme, nell'unità della fede e nel rispetto delle legittime diversità, accogliendosi e sostenendosi a vicenda come membra dell'unico Corpo di Cristo.

Con analogo impegno dev'essere coltivato il dialogo ecumenico con i fratelli e le sorelle della Comunione anglicana e delle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma. Il confronto teologico su punti essenziali della fede e della morale cristiana, la collaborazione nella carità e, soprattutto, il grande ecumenismo della santità, con l'aiuto di Dio non potranno nel futuro non produrre i loro frutti. Intanto proseguiamo con fiducia nel cammino, sospirando il momento in cui, con tutti i discepoli di Cristo, senza eccezione, potremo cantare insieme a voce spiegata: « Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme » (Sal 133[132],1).

Scommettere sulla carità

49. Dalla comunione intra-ecclesiale, la carità si apre per sua natura al servizio universale, proiettandoci nell'impegno di un amore operoso e concreto verso ogni essere umano. È un ambito, questo, che qualifica in modo ugualmente decisivo la vita cristiana, lo stile ecclesiale e la programmazione pastorale. Il secolo e il millennio che si avviano dovranno ancora vedere, ed anzi è auspicabile che lo vedano con forza maggiore, a quale grado di dedizione sappia arrivare la carità verso i più poveri. Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi: « Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi » (Mt 25,35-36). Questa pagina non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell'ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo.

Certo, non va dimenticato che nessuno può essere escluso dal nostro amore, dal momento che « con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo ». Ma stando alle inequivocabili parole del Vangelo, nella persona dei poveri c'è una sua presenza speciale, che impone alla Chiesa un'opzione preferenziale per loro. Attraverso tale opzione, si testimonia lo stile dell'amore di Dio, la sua provvidenza, la sua misericordia, e in qualche modo si seminano ancora nella storia quei semi del Regno di Dio che Gesù stesso pose nella sua vita terrena venendo incontro a quanti ricorrevano a lui per tutte le necessità spirituali e materiali.

50. In effetti sono tanti, nel nostro tempo, i bisogni che interpellano la sensibilità cristiana. Il nostro mondo comincia il nuovo millennio carico delle contraddizioni di una crescita economica, culturale, tecnologica, che offre a pochi fortunati grandi possibilità, lasciando milioni e milioni di persone non solo ai margini del progresso, ma alle prese con condizioni di vita ben al di sotto del minimo dovuto alla dignità umana. È possibile che, nel nostro tempo, ci sia ancora chi muore di fame? chi resta condannato all'analfabetismo? chi manca delle cure mediche più elementari? chi non ha una casa in cui ripararsi?

Lo scenario della povertà può allargarsi indefinitamente, se aggiungiamo alle vecchie le nuove povertà, che investono spesso anche gli ambienti e le categorie non prive di risorse economiche, ma esposte alla disperazione del non senso, all'insidia della droga, all'abbandono nell'età avanzata o nella malattia, all'emarginazione o alla discriminazione sociale. Il cristiano, che si affaccia su questo scenario, deve imparare a fare il suo atto di fede in Cristo decifrandone l'appello che egli manda da questo mondo della povertà. Si tratta di continuare una tradizione di carità che ha avuto già nei due passati millenni tantissime espressioni, ma che oggi forse richiede ancora maggiore inventiva. È l'ora di una nuova « fantasia della carità », che si dispieghi non tanto e non solo nell'efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione.

Dobbiamo per questo fare in modo che i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come « a casa loro ». Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno? Senza questa forma di evangelizzazione, compiuta attraverso la carità e la testimonianza della povertà cristiana, l'annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l'odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone. La carità delle opere assicura una forza inequivocabile alla carità delle parole.

Le sfide odierne

51. E come poi tenerci in disparte di fronte alle prospettive di un dissesto ecologico, che rende inospitali e nemiche dell'uomo vaste aree del pianeta? O rispetto ai problemi della pace, spesso minacciata con l'incubo di guerre catastrofiche? O di fronte al vilipendio dei diritti umani fondamentali di tante persone, specialmente dei bambini? Tante sono le urgenze, alle quali l'animo cristiano non può restare insensibile.

Un impegno speciale deve riguardare alcuni aspetti della radicalità evangelica che sono spesso meno compresi, fino a rendere impopolare l'intervento della Chiesa, ma che non possono per questo essere meno presenti nell'agenda ecclesiale della carità. Mi riferisco al dovere di impegnarsi per il rispetto della vita di ciascun essere umano dal concepimento fino al suo naturale tramonto. Allo stesso modo, il servizio all'uomo ci impone di gridare, opportunamente e importunamente, che quanti s'avvalgono delle nuove potenzialità della scienza, specie sul terreno delle biotecnologie, non possono mai disattendere le esigenze fondamentali dell'etica, appellandosi magari ad una discutibile solidarietà, che finisce per discriminare tra vita e vita, in spregio della dignità propria di ogni essere umano.

Per l'efficacia della testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e controversi, è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell'essere umano. La carità si farà allora necessariamente servizio alla cultura, alla politica, all'economia, alla famiglia, perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino dell'essere umano e il futuro della civiltà.

52. Tutto questo ovviamente dovrà essere realizzato con uno stile specificamente cristiano: saranno soprattutto i laici a rendersi presenti in questi compiti in adempimento della vocazione loro propria, senza mai cedere alla tentazione di ridurre le comunità cristiane ad agenzie sociali. In particolare, il rapporto con la società civile dovrà configurarsi in modo da rispettare l'autonomia e le competenze di quest'ultima, secondo gli insegnamenti proposti dalla dottrina sociale della Chiesa.

È noto lo sforzo che il Magistero ecclesiale ha compiuto, soprattutto nel secolo XX, per leggere la realtà sociale alla luce del Vangelo ed offrire in modo sempre più puntuale ed organico il proprio contributo alla soluzione della questione sociale, divenuta ormai una questione planetaria.

Questo versante etico-sociale si propone come dimensione imprescindibile della testimonianza cristiana: si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell'Incarnazione e, in definitiva, con la stessa tensione escatologica del cristianesimo. Se quest'ultima ci rende consapevoli del carattere relativo della storia, ciò non vale a disimpegnarci in alcun modo dal dovere di costruirla. Rimane più che mai attuale, a tal proposito, l'insegnamento del Concilio Vaticano II: « Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più stringente ».

Un segno concreto

53. Per dare un segno di questo indirizzo di carità e di promozione umana, che si radica nelle intime esigenze del Vangelo, ho voluto che lo stesso Anno giubilare, tra i numerosi frutti di carità che già ha prodotto nel corso del suo svolgimento — penso, in particolare, all'aiuto offerto a tanti fratelli più poveri per consentir loro di prendere parte al Giubileo — lasciasse anche un'opera che costituisse, in qualche modo, il frutto e il sigillo della carità giubilare. Molti pellegrini, infatti, hanno in diversi modi versato il loro obolo e, insieme con loro, anche molti protagonisti dell'attività economica hanno offerto sostegni generosi, che sono serviti ad assicurare una conveniente realizzazione dell'evento giubilare. Saldati i conti delle spese che è stato necessario affrontare nel corso dell'anno, il denaro che si sarà potuto risparmiare dovrà essere destinato a finalità caritative. È importante infatti che da un evento religioso tanto significativo sia allontanata ogni parvenza di speculazione economica. Ciò che sopravanzerà servirà a ripetere anche in questa circostanza l'esperienza vissuta tante altre volte nel corso della storia da quando, agli inizi della Chiesa, la comunità di Gerusalemme offrì ai non cristiani lo spettacolo commovente di uno spontaneo scambio di doni, fino alla comunione dei beni, a favore dei più poveri (cfr At 2,44-45).

L'opera che verrà realizzata sarà soltanto un piccolo rivolo che confluirà nel grande fiume della carità cristiana che percorre la storia. Piccolo, ma significativo rivolo: il Giubileo ha spinto il mondo a guardare verso Roma, la Chiesa « che presiede alla carità » ed a recare a Pietro il proprio obolo. Ora la carità manifestata nel centro della cattolicità torna, in qualche modo, a volgersi verso il mondo attraverso questo segno, che vuole restare come frutto e memoria viva della comunione sperimentata in occasione del Giubileo.

Dialogo e missione

54. Un nuovo secolo, un nuovo millennio si aprono nella luce di Cristo. Non tutti però vedono questa luce. Noi abbiamo il compito stupendo ed esigente di esserne il « riflesso ». È il mysterium lunae così caro alla contemplazione dei Padri, i quali indicavano con tale immagine la dipendenza della Chiesa da Cristo, Sole di cui essa riflette la luce. Era un modo per esprimere quanto Cristo stesso dice, presentandosi come « luce del mondo » (Gv 8,12) e chiedendo insieme ai suoi discepoli di essere « la luce del mondo » (Mt 5,14).

È un compito, questo, che ci fa trepidare, se guardiamo alla debolezza che ci rende tanto spesso opachi e pieni di ombre. Ma è compito possibile, se esponendoci alla luce di Cristo, sappiamo aprirci alla grazia che ci rende uomini nuovi.

55. È in quest'ottica che si pone anche la grande sfida del dialogo interreligioso, nel quale il nuovo secolo ci vedrà ancora impegnati, nella linea indicata dal Concilio Vaticano II. Negli anni che hanno preparato il Grande Giubileo la Chiesa ha tentato, anche con incontri di notevole rilevanza simbolica, di delineare un rapporto di apertura e dialogo con esponenti di altre religioni. Il dialogo deve continuare. Nella condizione di più spiccato pluralismo culturale e religioso, quale si va prospettando nella società del nuovo millennio, tale dialogo è importante anche per mettere un sicuro presupposto di pace e allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione che hanno rigato di sangue tanti periodi nella storia dell'umanità. Il nome dell'unico Dio deve diventare sempre di più, qual è, un nome di pace e un imperativo di pace.

56. Ma il dialogo non può essere fondato sull'indifferentismo religioso, e noi cristiani abbiamo il dovere di svilupparlo offrendo la testimonianza piena della speranza che è in noi (cfr 1 Pt 3,15). Non dobbiamo aver paura che possa costituire offesa all'altrui identità ciò che è invece annuncio gioioso di un dono che è per tutti, e che va a tutti proposto con il più grande rispetto della libertà di ciascuno: il dono della rivelazione del Dio-Amore che « ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito » (Gv 3,16). Tutto questo, come è stato anche recentemente sottolineato dalla Dichiarazione Dominus Iesus, non può essere oggetto di una sorta di trattativa dialogica, quasi fosse per noi una semplice opinione: è invece per noi grazia che ci riempie di gioia, è notizia che abbiamo il dovere di annunciare.

La Chiesa, pertanto, non si può sottrarre all'attività missionaria verso i popoli, e resta compito prioritario della missio ad gentes l'annuncio che è nel Cristo, « Via, Verità e Vita » (Gv 14,6), che gli uomini trovano la salvezza. Il dialogo interreligioso « non può semplicemente sostituire l'annuncio, ma resta orientato verso l'annuncio ». Il dovere missionario, d'altra parte, non ci impedisce di andare al dialogo intimamente disposti all'ascolto. Sappiamo infatti che, di fronte al mistero di grazia infinitamente ricco di dimensioni e di implicazioni per la vita e la storia dell'uomo, la Chiesa stessa non finirà mai di indagare, contando sull'aiuto del Paraclito, lo Spirito di verità (cfr Gv 14,17), al quale appunto compete di portarla alla « pienezza della verità » (cfr Gv 16,13).

Questo principio è alla base non solo dell'inesauribile approfondimento teologico della verità cristiana, ma anche del dialogo cristiano con le filosofie, le culture, le religioni. Non raramente lo Spirito di Dio, che « soffia dove vuole » (Gv 3,8), suscita nell'esperienza umana universale, nonostante le sue molteplici contraddizioni, segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori. Non è stato forse con questa umile e fiduciosa apertura che il Concilio Vaticano II si è impegnato a leggere i « segni dei tempi»? Pur attuando un operoso e vigile discernimento, per cogliere i « veri segni della presenza o del disegno di Dio », la Chiesa riconosce che non ha solo dato, ma anche « ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano ». Questo atteggiamento di apertura e insieme di attento discernimento il Concilio lo ha inaugurato anche nei confronti delle altre religioni. Tocca a noi seguirne l'insegnamento e la traccia con grande fedeltà.

Nella luce del Concilio

57. Quanta ricchezza, carissimi Fratelli e Sorelle, negli orientamenti che il Concilio Vaticano II ci ha dato! Per questo, in preparazione al Grande Giubileo, ho chiesto alla Chiesa di interrogarsi sulla ricezione del Concilio. È stato fatto? Il Convegno che si è tenuto qui in Vaticano è stato un momento di questa riflessione, e mi auguro che altrettanto si sia fatto, in diversi modi, in tutte le Chiese particolari. A mano a mano che passano gli anni, quei testi non perdono il loro valore né il loro smalto. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, che vengano conosciuti e assimilati, come testi qualificati e normativi del Magistero, all'interno della Tradizione della Chiesa. A Giubileo concluso sento più che mai il dovere di additare il Concilio, come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre.

(...)

Estratto dalla
LETTERA APOSTOLICA
Novo Millennio ineunte
del Sommo Pontefice
GIOVANNI PAOLO II
all'episcopato,
al clero e ai fedeli
Al termine del GRANDE GIUBILEO dell'Anno Duemila
Vaticano, 6 gennaio,
Solennità dell'Epifania del Signore, dell'anno 2001, ventitreesimo di Pontificato.

Fonte: Santa Sede
Cliccando QUI si può leggere l'intero testo.
Nota: nel copiaincolla sul mio blog sono stati mantenuti i grassetti e i corsivi del testo originale.




 

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