Si aggiustano orologi... Un racconto di inizio anno (per adulti)

Sottotitolo: una rapina mal riuscita... 

Mentre il racconto di Berlicche è riuscitissimo e potete leggerlo integralmente cliccando qui




Eccovi di seguito l'inizio della storia.
Il rapinatore vi parla in prima persona. Shhhh... silenzio... Una città infreddolita, poca gente in giro, un po' di nebbia...

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Passando sbirciai dentro al vicolo, e vidi la porta ed il cartello: “Si aggiustano orologi”. Era un passaggio stretto, scuro, che si infilava tra due blocchi di case, ingombro di bidoni e imballaggi abbandonati. Il vicolo curvava verso l’ignoto; perché qualcuno tenesse un negozio in un buco così inospitale invece che sulla via principale era una domanda che mi attraversò la mente per un attimo, ma la liquidai. Forse era un artigiano in difficoltà, per via di questa maledetta crisi. Forse non aveva i soldi per una vera vetrina, e doveva accontentarsi di una finestra opaca invece di un’insegna come si deve. O forse era un negozio così esclusivo da non averne necessità.
Mi toccai la tasca. Comunque sia, era quello di cui ora avevo bisogno. Bisogna pur cominciare, da qualche parte.
La porta resistette per qualche attimo prima di cedere alla mia spinta. Andiamo bene, mi dissi.
Entrai.
Chiusi con cura l’uscio dietro di me, poi mi voltai. E mi arrestai, stupito.
Come molti di voi, da piccolo, avevo guardato il film di Pinocchio. Quello era stato un tempo felice, in cui non sapevo ancora niente della vita, e il cartone della Disney può essere veduto anche senza capirlo. Senza comprendere che è la fuga disperata di un burattino dalla realtà, dal dovere essere uomo. Fino al lieto fine, almeno. Allora non sapevo che non esistono davvero, i lieto fine.
Una delle scene che più mi avevano colpito era quella nella bottega di Geppetto. Piena di orologi a pendolo e a cucù, su ogni parete, che ticchettavano tutti assieme. Avete presente, no?
Qui era lo stesso. Più o meno.
Le pareti, gli scaffali, ogni superficie verticale e orizzontale erano ricoperti di orologi. Molto meno allegri di quelli di legno con le figurine semoventi del cartone animato. Erano di tutti i tipi, cronometri, da polso, da parete, di ogni foggia e colore e dimensione. Il loro ticchettio era come la vibrazione di un contrabbasso pieno d’api, lo scalpiccio di mille piedi in corsa, il battere di milioni di cuori. Dava l’impressione che sotto gli orologi in mostra ci fossero altri orologi, che le mura stesse del megozio fossero fatte di ruote dentate e lancette. Dietro al banco una figura stava curva. Non era Geppetto. Rovistava con delle pinzette all’interno di un meccanismo. Indossava occhiali con spesse lenti e una luce che illuminava come il faro di un teatro le viscere aperte su cui stava lavorando. A prima vista mi era sembrato vecchio, quasi decrepito, ma quando alzò la testa e la luce cambiò vidi che era giovane, forse più giovane di me.
“Sì?” disse in tono interrogativo, guardandomi.
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